Quando si parla di caccia si dice di tutto e di più. Ognuno di noi è più bravo degli altri, con cani eccellenti, conosciamo tutta la storia della genealogia dei nostri e degli altrui cani. Spesso mi capita, proprio in virtù di questa passione, ad essere presente a cene conviviali tra cacciatori. In queste divertenti riunioni gastronomiche spesso ritroviamo le caratteristiche venatorie di ognuno di noi riflesse nella vita normale di tutti i giorni. Troviamo cacciatori di tutte le età anche se sempre meno giovani. Siamo una specie in via d’estinzione.
La prima caratteristica che incontro nei cacciatori anziani – 70/80 anni – è il vivere di ricordi. Le cene sono spesso il palcoscenico di racconti di cacciate epiche fatte molti anni prima. Raccontano delle difficoltà incontrate dopo la guerra, quando la caccia era l’arte del portare a tavola la carne. Sì, in quegli anni la cosa importante era mangiare e dare alla propria famiglia un po’ di sostentamento. Si viveva alla giornata e, quando erano finite le scorte di legumi, ecco allora che si confidava nella bravura di chi andava a caccia.
Chi imbracciava il fucile aveva tutte le motivazioni del periodo. Univa innanzitutto la necessità della famiglia al piacere, al gusto di una caccia primordiale. Con il tempo, quando le grosse necessità nutritive della famiglia diminuirono, rimasero però nei cacciatori l’istinto e la voglia di competere con lepri e rosse prima, e fagiani e beccacce successivamente. I racconti dei cacciatori anziani sono sempre un po’ romanzati, ma trasmettono ai giovani la voglia e l’istinto e, soprattutto, la consapevolezza che anche loro un giorno racconteranno le proprie avventure venatorie.
Superata la necessità alimentare dei loro genitori, per i cacciatori degli anni Sessanta e Settanta incominciano cacce più specialistiche, come ad esempio quella con i cani da ferma per la caccia alle quaglie in agosto o alle starne e ai fagiani a stagione inoltrata. Un po’ alla volta si abbandona quella caccia fatta con ausiliari di razza meticcia, spesso bravi in tutto e in niente, figli dell’epoca in cui l’unico obiettivo venatorio era scovare la selvaggina qualunque essa fosse, per la gioia del padrone. Ecco che i cacciatori della mia generazione incominciarono a guardarsi attorno e a utilizzare cani con pedigree nella speranza che ciò li trasformasse in bravi cacciatori. Ma tutti capimmo che essere dei bravi cacciatori non voleva dire nulla. Si incominciava a comprendere che il binomio cane-cacciatore non doveva aumentare i carnieri quanto, piuttosto, dare vita a uno stile personale.
Io ho consumato le mie ginocchia alla ricerca delle cotorne attorno al monte Baldo. Da solo, con due cani, all’inseguimento di questo meraviglioso selvatico stanziale. E quando, per un’insieme di motivazioni, si riusciva ad abbatterne uno, nel cuore arrivava una gioia incredibile. Erano quelle 3-4 cotorne prelevate in una stagione intera. Partivo al mattino al buio, con qualsiasi meteo. Sereno, pioggia, freddo, non ho mai disdegnato una giornata di caccia. Spesso tornavo a casa stanchissimo senza selvaggina, ma consapevole di aver goduto di una giornata in compagnia dei miei cani. E in quegli anni incominciarono a regolamentare la caccia in maniera diversa, si istituirono zone protette (chissà da cosa), parchi e oasi dove la mia selvaggina preferita (appunto, la coturnice) viveva e si riproduceva.
La politica, convinta di fare del bene al territorio, capì che quello era il modo di procurarsi tanti consensi fra i cittadini. In montagna bisognava investire nell’agricoltura. Fare in modo che contadini e allevatori e pastori rimanessero in quei territori e non fossero obbligati ad abbandonarli. Finanziamenti per abbattere le mucche, per chiudere le stalle, hanno posto le montagne nelle condizioni di modificarsi. Non più pascoli, non più terreni coltivati, ma bosco, sterpaglie e un grande pericolo di incendi.